Il delirio auto-celebrativo

Abbiamo raggiunto l’orgasmo del de profundis politico. La linea di confine che separava la commedia dalla tragedia, il buonumore dalla disperazione, è stata oltrepassata quando abbiamo capito che c’è del marcio in Italia. L’amare appassionatamente tre figure politiche di un così alto spessore mediatico – Renzi, Grillo, Berlusconi – ci ha resi ciechi dinanzi all’evidenza dei fatti: provare a chiedere agli elettori dei tre massimi esponenti della politica nostrana perché li apprezzino e quindi li votino, è un esercizio di stile che può portare all’ambiguità estrema.

Non è una critica ostile, la mia. È un modo di vedere le cose con occhi diversi, più realistici, se vogliamo. Ho chiesto ad alcuni amici perché Renzi piace. È giovane e sa quel che vuole, mi rispondono. Allora ho chiesto ad alcuni colleghi perché avessero votato Berlusconi. È un grande statista che non ruba perché è pieno di soldi. Ho finito le domande ad altri colleghi che votano Cinquestelle: cacceremo dal Parlamento tutti i ladri e ce lo prenderemo noi. Nessuno è riuscito a dare risposte politicamente valide o semplicemente logiche. È questo l’orgasmo di inizio post.

A furia di sentire sempre gli stessi discorsi, l’abitudine è diventata una vocazione. Questa vocazione ha raggiunto apici magistrali. I tre citati sopra raggiungono il 75 per cento dei voti degli italiani, e nessuno – ma abbiamo ancora una flebile speranza per uno dei tre – è ancora riuscito ad offrirci un serio progetto di futuro che assomigli ad un reale traguardo di crescita. L’unica cosa che riescono ad offrirci è il loro nome, il loro appeal, la loro medianicità. Siamo di fronte al delirio auto-celebrativo.

Questo modo di fare, questo modo di agire per conto terzi, ci ha espropriato del senso di responsabilità facendoci diventare sudditi della mediocrità in base al target a cui siamo più legati. La vacuità e l’ina­de­gua­tezza a rappresentare tutti i cittadini, ci ha fatto sprofondare in ciò che credo si possa considerare la vocazione al compromesso statico. Uno spettacolo che stringe il cuore, tanto più che la pletora di unti del signore che appaiono in tv (padre, figlio e spirito santo) non riesce minimamente a capire in quale particolare contesto storico siamo catapultati da sei anni a questa parte. La crisi, sì, la crisi che ha spaccato la volontà di costruire per crescere e migliorare; la crisi che non riesce a farci elaborare nemmeno il mea culpa autocritico per ciò che non stiamo facendo, o che non riusciamo a fare. Ma la crisi è anche figlia di una classe dirigente poco autorevole e irresponsabile che si accontenta di tracciare il solco nel proprio orticello piuttosto che arare gli acri di deserto che li circonda.

Il perverso fascino del catastrofismo ci ha preso tutti, indistintamente, a destra e a sinistra. Non è più il colore che conta ma la forza che mettiamo per tirarci fuori dalla pozza in cui siamo affogati. La piovra finanziaria, l’Europa dei più ricchi e potenti, la nuova schiavitù sotto forma di contratti di lavoro atipici e non negoziabili, la globalizzazione inversa che rende i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. La disuguaglianza sociale ai massimi storici non scalfisce minimamente le nostre coscienze: siamo tutti più forti, più duri, più egoisti. E lo facciamo consapevolmente perché subirlo significa morte.

Le parole sono importanti perché colpiscono i nostri sentimenti. E lo sono innanzitutto quando vengono ripetute e osses­si­va­mente rei­te­rate sui gior­nali dai nostri politici. Le parole devono corrispondere esattamente ai fatti che si compiono. Se accade il contrario la parola diventa il nostro peggior nemico.