«Vivi il Pd, cambia l’Italia». Si presenta con questo slogan la mozione di Ignazio Marino per il Congresso d’autunno, con un sito Internet che espone le diverse tesi e lascia spazio ai commenti liberi dei navigatori. Tra queste, l’idea di un «contratto individuale di lavoro unico, a tempo indeterminato, con salario minimo garantito e garanzie di reddito a protezione delle fasi di disoccupazione tra un contratto e l’altro». Dopo aver parlato con Cesare Damiano e Stefano Fassina, rispettivamente sostenitori delle mozioni Franceschini e Bersani, e contrari a intervenire sull’articolo 18, questa è la posizione che colpisce di più. E all’inizio spiazza, dato che mette insieme a due righe di distanza il «tempo indeterminato» con la «disoccupazione tra un contratto e l’altro». Come si dovrebbero conciliare due concetti che sembrano fare a pugni? Prova a spiegarcelo Ivan Scalfarotto, uno degli elaboratori della tesi sul lavoro.

La chiave sta nel facilitare i licenziamenti?
Nella nostra ipotesi tutti avranno il tempo indeterminato; l’articolo 18 resta, ma cambia la sua applicazione, sulla falsariga di quello che propone Pietro Ichino. Oggi il tempo indeterminato classico, con l’articolo 18 pieno, copre sempre meno persone, ed è rarissimo trovare nuovi assunti a cui venga applicato. Tutti entrano con contratti atipici, partite Iva, consulenze: ma la gran parte sono fraudolenti, perché nascondono lavoro dipendente. Allora noi diciamo: estendiamo realmente a tutti i diritti pieni, la malattia, la maternità, le ferie, i contributi, ma rendendo meno rigido il licenziamento, in modo da spalmare i diritti su tutti. La flessibilità ha avuto negli ultimi anni il merito di abbassare il tasso di disoccupazione, ma è stata selvaggia e ha creato enorme precarietà.

Dunque cosa proponete?
Togliamo via i contratti «fasulli», tipo cococò e cocoprò, e facciamo a tutti – con l’eccezione degli autentici stagionali – dei contratti a tempo indeterminato. L’articolo 18 resta, ma garantisce il reintegro solo per i licenziamenti illeciti o disciplinari: se sei licenziato per rappresaglia, per le tue idee politiche, la tua etnia, il tuo orientamento sessuale. Se invece il licenziamento è giustificato per motivi organizzativi, ad esempio perché il reparto di un’azienda non riesce più a produrre in modo efficace, allora il contratto può essere rescisso, ma la novità è che il lavoratore può accedere al «reddito minimo di solidarietà», erogato con il concorso pubblico, ad esempio del Fondo sociale europeo, e delle aziende. Queste ultime, finanziano il fondo con un meccanismo di bonus/malus: più licenziano, più il premio che devono pagare si alza. Questo reddito mensile dura idealmente finché il lavoratore non trova un altro contratto, è accompagnato da formazione e collocamento. Infine, se il lavoratore fa causa perché ritiene ingiustificata la motivazione economica, e il giudice gli dà ragione, non è previsto il reintegro, ma un risarcimento: oltre, ovviamente, al reddito minimo.

«Flexsecurity» come in Nord Europa. Se in Italia fosse facile trovare nuovi posti, ma quasi mai lo è.
Rendendo il mercato più fluido, lo sarà. Poi c’è il vantaggio, per il lavoratore, di avere reddito e welfare continuativi, e può accendere un mutuo. Le imprese, avendo tutto personale a tempo indeterminato, saranno motivate a investire in premi e in formazione.

Sul patto dei contratti del 22 gennaio cosa pensate? La Cgil ha ragione, o concordate con Cisl e Uil?
La divisione tra sindacati non è mai buona. Dell’accordo apprezzo il principio: valorizzare le differenze tra aziende, incentivando la produttività e il rapporto collaborativo più che contrappositivo tra lavoratori e impresa. Detto questo, però, trovo giusta la preoccupazione sul fatto che non viene conteggiata l’inflazione importata con il petrolio.

L’età pensionabile deve essere innalzata?
Bisogna tener conto dell’allungamento della vita e del fatto che l’Inps alla lunga non regge, ma si deve anche fare spazio ai giovani. Io favorirei un «invecchiamento attivo», avendo però riguardo per i mestieri usuranti. Sull’aumento dell’età per le lavoratrici, ritengo che non sia giusto se, di pari passo, non si porta tutto il loro iter a una reale parità. Noi proponiamo che il congedo parentale debba essere obbligatoriamente diviso a metà tra padre e madre, e che almeno il 40% dei cda delle aziende sia composto da donne.

Ivan Scalfarotto intervistato dal Manifesto