Il forum economico di Davos richiama all’ordine ancora una volta l’Italia, nel senso che deve approfittare della stabilità politica appena raggiunta (ma quale?) per andare avanti con le riforme sul mercato del lavoro e sulle privatizzazioni appena avviate con la svendita di Poste Italiane e Enav. Olli Rehn, il commissario Ue agli affari economici, ha ribadito al ministro Saccomanni i trentanove punti della lettera inviata nel 2011, in cui si chiedeva al nostro paese di seguire la rotta delle riforme strutturali e riprendersi dalla perdita di posizioni nella classifica del World Economic Forum 2013 nel quale l’Italia si trova 49esima, indietro di ben sette posizioni rispetto all’anno precedente.
Non ci resta che piangere. L’Italia, assieme alla Grecia, è il paese europeo che ha più seguito le direttive della Troika, perdendo, dal 2007 ad oggi, il 9,1% di Pil che solo la metà – ma sono ancora supposizioni ottimistiche – verrà recuperato entro il 2019. Lo dice un report del Centro Studi di Confindustria, secondo il quale sono stati bruciati oltre 200 miliardi di euro di reddito ai prezzi 2013, quasi 3.500 ad abitante.
E però Rehn è convinto che Renzi sia il salvatore della patria, perché con la bozza del Jobs Act che il segretario Pd ha inviato all’Europa, la Commissione lo ha eletto unanimemente garante della stabilità politica e delle riforme. E presto arriverà il Nobel come per Obama, dunque. Perché, a scanso di equivoci, alcuni punti della riforma Renzi sono contenuti anche nel diktat europeo inviato ai paesi membri più in sofferenza. L’UE chiede un ammorbidimento della precarietà e delle tutele; ma dall’altro lato prova a chiedere incentivi alle imprese e flessibilità per i neo-assunti, il taglio dei parlamentari e una riforma costituzionale. Proprio quello che dice di voler fare Letta assieme a Forza Italia, e quello che ha scritto Renzi sul suo Jobs Act. Non con la maggioranza, ovviamente, ma con chi ci sta. E proprio quel “chi ci sta” apre un mondo.
Poi è chiaro, Draghi dice continuamente che la situazione è migliorata dall’inizio della crisi. E ci mancherebbe: il governatore non vede una deflazione ma una debole, fragile e disomogenea crescita. Però Christine Lagarde, direttrice dell’Fmi, la pensa diversamente perché crede che la deflazione in Europa è una possibilità attorno al 15-20%. Del resto, a pensarci bene, una crescita da prefisso telefonico non porterà quasi nessun beneficio a livello occupazionale; di contro nemmeno continuare a salvare le banche – che va fatto, non ci sono storie – farebbe aumentare l’offerta. L’unica possibilità è creare l’Unione Bancaria europea, che non è la soluzione e non riuscirà a risolvere la frammentazione del sistema e a superare il credit crunch che impedisce di far arrivare risorse alle famiglie e alle aziende del sud-Europa, ma è il miglior punto di partenza per perfezionare l’unità europea – soprattutto economica e bancaria – che si parla da decenni a cui nessuno crede o vuole credere.
E difatti il mantra dell’Europa-che-conta è cambiar tutto senza dover cambiare nulla, tant’è che a Davos i ministri dell’Economia hanno chiesto l’accelerazione dei negoziati per la liberalizzazione del commercio globale in modo che tutto possa essere commerciabile: dall’agricoltura ai prodotti industriali ai servizi. Tutto.
Sorridete, nella pittoresca Davos è andato in scena il summit a metà tra pellegrinaggio religioso e convention aziendale. Insomma, qui si è cambiato il mondo!
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