L’Italia affondo perduto

Un buon piano per lo sviluppo e per il lavoro dovrebbe basarsi principalmente nello spendere bene i 114 miliardi di euro in fondi europei che l’Italia ha a disposizione. I governi Letta, Monti e Berlusconi, hanno fallito sostanzialmente perché non basavano la loro politica economica anche sui numeri: quasi trenta miliardi non spesi nel periodo 2007-2013; altri 85 nel periodo 2014-2020 non spendibili perché il governo non ha ancora concluso la programmazione con l’UE. Invocare la crescita senza sfruttare le risorse comunitarie, considerando che al momento rimangono gli unici investimenti possibili contro la crisi, è diventato negli anni il nonsense della nostra classe politica.

Il cuneo fiscale e il Sud. Forse solo questo governo riuscirà finalmente ad alzare la testa e a trovare le risposte cruciali alle domande di questi anni, magari seguendo alcuni logici consigli. L’economista Roberto Perotti, sul Sole di settimana scorsa, aveva qualche risposta per l’esecutivo Renzi: “molti dei soldi che riceviamo dalla Ue non servono a niente, anzi sono dannosi; faremmo molto meglio a rinunziarvi e chiedere uno sconto equivalente sui contributi che versiamo alla Ue. Potremmo usare questi risparmi per ridurre il cuneo fiscale di almeno 5-6 miliardi all’anno“. Ventidue degli 85 miliardi che l’UE darà all’Italia andranno a sole cinque regioni: Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, e Sicilia. Cioè al Sud. Se però il governo sposterà quei soldi per ridurre il cuneo fiscale, tutto il Sud si ritroverà senza un euro. Senza contare che le regioni quei soldi probabilmente li avranno già messi a bilancio, quindi dovranno reperire quei fondi in altri modi (tipo aumentare le tasse). Anche in questo caso le domande si moltiplicano: i comuni riusciranno a gestire i fondi Ue o vincerà l’opposizione delle regioni? Le forze sociali, ovvero Camusso, Ange­letti, Bonanni e Squinzi, hanno una loro pro­po­sta per creare lavoro e svi­luppo in Italia? Partendo da questi spunti, l’idea che mi sono fatto è che Renzi, prima di avviare qualsiasi riforma, deve rottamare tutta la classe politica e i dirigenti pubblici che finora non hanno saputo – o voluto – spendere adeguatamente le risorse comunitarie per creare sviluppo e dunque lavoro.

Fondi perduti. Nei prossimi anni avremo quasi 29 miliardi di residuo al 31/12 dalla pro­gram­ma­zione 2007–2013 da spendere – 23 dei pro­grammi cofi­nan­ziati dal Fesr (Fondo Euro­peo di Svi­luppo Regio­nale) e dal Fse (Fondo Sociale Europeo), ulteriori 6 miliardi dei piani cofi­nan­ziati dal Feasr (Fondo Euro­peo Agri­colo di Svi­luppo Rurale) – su un totale di 66 che ne avevamo a disposizione. L’incapacità precedente di non aver saputo spendere correttamente tutti questi miliardi, dà a Renzi la meravigliosa opportunità – grazie alla deroga comunitaria di ulteriori due anni di tempo – di dimostrare le sue capacità di fronte alla crisi. Il presidente del Consiglio deve però sbrigarsi a spenderli entro dicembre 2015, in caso contrario torneranno a Bruxelles e in quel caso Bruxelles non ci concederà gli 85 miliardi che ci spettano per il settennato 2014-2020. Pertanto serve sia l’urgenza che le capacità di girare 114 miliardi di euro in ambito di crescita sfruttabile nell’immediato.

Gli incentivi automatici. Uno degli errori più gravi dei precedenti governi, è stato quello di programmare i fondi europei per creare degli incentivi automatici che andavano alle aziende e quindi all’occupazione. Ma il trasferimento dei fondi in incentivi ha due ragionevoli difficoltà: la prima è che appena finiscono, le aziende licenziano i nuovi assunti, o, nel migliore dei casi, ne tengono solo una piccolissima percentuale; il secondo problema è che le aziende comprano beni strumentali da fornitori italiani delocalizzati all’estero, quindi con manodopera straniera. In era di globalizzazione e di UE è corretto l’acquisto dentro i confini della Comunità Europea, a patto però che non si dica che si sta sviluppando crescita per il nostro paese. Paradossalmente chi ha cercato di prevaricare questo paradigma si è trovato davanti a un muro.

Innovazione tecnologica. Uno dei pochi passi in avanti fatti durante la scorsa legislatura, fu la presentazione di un emendamento in Senato nella Finanziaria del 2008 (o del 2009, in questo momento mi sfugge l’anno esatto) in cui venivano cancellati gli incentivi automatici sulla ricerca per il Sud e veniva isti­tuito un pro­gramma nazio­nale di ricerca e rein­du­stria­liz­za­zione per sele­zio­nare le filiere pro­dut­tive gene­ra­trici di inno­va­zione. Inoltre si chiedeva la dispo­ni­bilità a tra­sfe­rire sul piano indu­striale i risul­tati della ricerca finan­ziata. L’emendamento non passò poiché in com­mis­sione bilan­cio pre­valse l’idea secondo cui le imprese per assu­mere hanno biso­gno di liqui­dità (cre­dito d’imposta e sta­ges pagati dallo stato). È vero che con questo tipo di risorse non tutte le aziende avrebbero ricevuto i finanziamenti pubblici, ma è altrettanto vero che – come dice adesso Squinzi – le aziende oggi pre­fe­ri­rebbero un taglio dell’Irap piuttosto che inu­tili agevola­zioni. Il governo Letta ha fatto orecchie da mercante preferendo la Legge Saba­tini e il cre­dito d’imposta sull’occupazione per gli under 29; speriamo che Renzi apra gli occhi e sia da fare guardando anche dall’altra parte della barricata.

Politiche industriali forti. Una nota incontrovertibile dice che le aziende assumono solo se c’è una domanda dei beni che producono. Ma in tempi di crisi, e siamo nel bel mezzo di sei anni di crisi feroce, senza uno sviluppo adeguato non ci saranno assunzioni ma delocalizzazioni verso quei paesi in cui il costo del lavoro è decisamente inferiore al nostro; oppure, come accade in Austria e Germania, dove a fronte di un costo del lavoro simile a quello italiano, il sistema produttivo è molto più solido e quindi dà più garanzie. Un sistema produttivo capace si crea soprattutto con delle politiche industriali forti e con degli sgravi fiscali che smussano i contorni. Lavorare al contrario – prima gli sgravi e poi le politiche industriali – è solo un inutile palliativo che ci farà perdere del tempo necessario per risollevarci dalla crisi. Non solo: negli ultimi trent’anni, con un uso assolutamente impro­prio del ter­mine “inno­va­zione“, è stato spacciato come inno­va­zione del sistema pro­dut­tivo l’incentivo alle aziende per il tra­sfe­ri­mento tec­no­lo­gico. In pratica è come se la sosti­tu­zione della rete infor­ma­tica azien­dale, gra­zie al con­tri­buto a fondo per­duto, fosse innovazione tec­no­lo­gica. Tutto ciò è assurdo.

La Germania e i fondi europei. Ma se da un lato l’Italia investe poco perché la Merkel chiede ai paesi UE di rispettare il rigore contabile, dall’altro è altrettanto vero che anche la Germania nel 2003 sforò il tetto del 3 per cento del debito: la Commis­sione Europea pre­sie­duta da Romano Prodi e con Mario Monti alla con­cor­renza, denun­ciò Fran­cia e Ger­ma­nia per non aver rispettato il limite del deficit del bilancio sul Pil, ma l’Eurogruppo e l’Eco­fin fecero sospen­dere la pro­ce­dura per defi­cit ecces­sivo descriminando tutti gli altri paesi che, a differenza di Berlino e Parigi, erano virtuosi. Per giunta noi italiani avremmo anche un credito di riconoscenza nei confronti della Merkel. Fu proprio grazie al nostro sostegno che Germania e Francia vennero esentate dalle sanzioni previste in quel caso, e se oggi Berlino continua a dire che l’Italia riceve favori dall’UE mentre la Germania continua a mantenerci, forse nell’incontro che Renzi avrà il 17 marzo con Merkel, sarebbe proprio il caso di ricordare ai tedeschi certi avvenimenti del recente passato.

Contribuenti netti. Ricordare alla Germania ciò che successe una decina d’anni fa non è l’unico motivo per ritrattare il deficit di bilancio. L’Italia, dopo Germania e Francia, è il terzo contribuente netto dell’UE: significa che siamo al terzo posto nella speciale classifica dei paesi che danno più di quello che ricevono. Siamo prima di Gran Bre­ta­gna, Olanda, Bel­gio e della rigo­rosa Sve­zia. A dirlo è la relazione della Corte dei Conti del 30 dicembre (da pag. 25 a pag. 32) la cui stima per l’anno 2012 è stato di 5,7 miliardi di euro netti a fronte di 16,4 versati e di appena 10,7 ricevuti. Nel settennato 2006-2012, l’Italia ha avuto un saldo negativo tra contributi versati e contributi ricevuti di oltre 41 miliardi. La Cancelliera, appena rieletta a settembre, ha sottolineato che i fondi europei per lo sviluppo andrebbero spesi meglio. Giusta osservazione. Peccato però che anche lei, come un po’ tutti i politici, si arroga il diritto dell’ultima parola anche dicendo sciocchezze: in pratica ha fatto capire che il primo paese problematico è l’Italia, e per tale ragioni ha ipotizzato una task force europea in grado di negare i fondi ai paesi inadempienti o inefficaci. Aldilà della sciocchezza in sé, la verità è che ai tedeschi fa comodo che noi italiani usiamo poco e male i fondi europei: regalando 41 miliardi in sette anni a Bruxelles, non riusciamo nemmeno a fare concorrenza alle imprese tedesche.

In attesa che l’Unione Europea diventi finalmente un’unione politica e fiscale dei paesi membri dove tutti hanno pari dignità, cambiare verso significa anche cambiare modo di gestire i rapporti con l’Europa.

This post was last modified on 14 Novembre 2018 17:04