Napo­li­tano con­ferma nel suo discorso di fine anno la nota linea delle riforme isti­tu­zio­nali «obbli­gate e urgenti». Ma lo sono dav­vero? E quali? In ogni caso, non è dub­bio che, se riforme si faranno, la spinta del Capo dello Stato sarà stata decisiva. Espri­miamo un dis­senso, con la sola ecce­zione della legge elet­to­rale. I punti sono tre: non è il momento giu­sto per met­tere mano alla Costi­tu­zione; le riforme pro­po­ste in larga parte non sono utili e anzi dan­nose; la Costi­tu­zione va attuata, e non stravolta.

Primo. Per­ché non è il momento giu­sto? Anzi­tutto, per un pro­blema di rap­pre­sen­ta­ti­vità del legi­sla­tore costi­tu­zio­nale. Que­sto par­la­mento è in asso­luto il meno rap­pre­sen­ta­tivo della sto­ria della Repub­blica. La Corte costi­tu­zio­nale ha già pro­nun­ciato l’illegittimità del Por­cel­lum. Rimane for­mal­mente intatta la legit­ti­ma­zione giu­ri­dica. Ma quella sostan­ziale e poli­tica è col­pita a morte, e lo sap­piamo fin d’ora, anche prima che le moti­va­zioni della sen­tenza siano note. Un par­la­mento dele­git­ti­mato alle radici della sua rap­pre­sen­ta­ti­vità può curare l’emergenza della crisi eco­no­mica, che non tol­lera sospen­sioni o ritardi. Può fare una legge elet­to­rale rispet­tosa della sen­tenza della Corte costi­tu­zio­nale. Ma non ha titolo a rico­struire dalle fon­da­menta la casa di tutti.

Inol­tre, la que­stione riforme si è impro­pria­mente intrec­ciata sin dall’inizio con la soprav­vi­venza dell’esecutivo. Riforme fatte non per­ché duri la Carta, ma per­ché duri un governo. Il con­torto per­corso dei saggi e della legge spe­ciale di revi­sione costi­tu­zio­nale è stato impo­sto dal governo. Lo sanno tutti che le mozioni par­la­men­tari sul punto furono scritte sotto det­ta­tura di Palazzo Chigi. Cosa impe­diva invece di par­tire con l’articolo 138 della Costi­tu­zione e le pro­po­ste da anni in campo, più o meno sag­gia­mente riprese?

L’ambizioso pro­getto — poi ampia­mente ridi­men­sio­nato nell’ultimo discorso di Enrico Letta per la fidu­cia — e il cro­no­pro­gramma ini­ziale di diciotto mesi furono bar­ba­cani a soste­gno della peri­co­lante strana maggioranza.

Secondo. Per­ché le riforme pro­po­ste sono dan­nose, e non utili? Lo sono di certo per la parte che insi­ste su linee ampia­mente smen­tite dagli ultimi venti anni, per­se­guendo obiet­tivi ormai agli anti­podi di quanto sarebbe neces­sa­rio. I pro­blemi del paese ven­gono da una intrin­seca fra­gi­lità della poli­tica, e dei suoi attori. Fram­men­ta­zione, feu­da­le­simo par­ti­tico, per­so­na­liz­za­zione estrema unita a debo­lezza delle lea­der­ship, eva­ne­scenza del pro­getto, per­dita del radi­ca­mento non sono curati dalle com­par­sate tele­vi­sive, da twit­ter o dai blog. E non si curano nem­meno blin­dando arti­fi­ciose lea­der­ship di governo con numeri par­la­men­tari fal­sati dai sistemi elet­to­rali, o met­tendo con norme costi­tu­zio­nali o di rego­la­mento par­la­men­tare la mor­dac­chia a ogni voce non allineata.

Eppure, è pro­prio que­sta la linea che si vor­rebbe: uomo solo al comando, ele­zione sostan­zial­mente o for­mal­mente diretta del lea­der con la sua — benin­teso obbe­diente — mag­gio­ranza, per­ma­nenza in carica per la durata del man­dato, bipo­la­ri­smo mili­ta­riz­zato. Nulla conta che il sistema non sia più bipo­lare, e che per venti anni pro­prio la linea pro­po­sta si sia mostrata fal­lace e ingan­ne­vole. Nes­suno dei governi bene­detti con il voto popo­lare è arri­vato senza traumi a fine legi­sla­tura. Nem­meno quelli di Berlusconi.

Terzo. Per­ché la Costi­tu­zione va attuata, e non stra­volta? Ce lo dice l’Istat. Disoc­cu­pa­zione, povertà rela­tiva e asso­luta, pen­sio­nati a mille euro o meno, gio­vani o ex gio­vani che la pen­sione nem­meno la vedranno, ascen­sore sociale fermo, impos­si­bi­lità per tanti di for­mare una fami­glia, di affron­tare un’emergenza medica, di man­dare i figli all’università. Nes­suna spe­ranza di futuro. Col­lassa la prima parte della Costi­tu­zione, assai più di quella — la seconda — che si vuole rifor­mare. Lo stesso Gior­gio Napo­li­tano parla di un anno dif­fi­cile e dram­ma­tico, di unità e coe­sione sociale a rischio. Vero. Ma certo non per­ché i rego­la­menti par­la­men­tari o le norme costi­tu­zio­nali sui decreti legge siano ina­de­guati. Piut­to­sto, per­ché milioni vivono nella disperazione.

È la inca­pa­cità di dare rispo­ste che soprat­tutto dele­git­tima poli­tica e isti­tu­zioni, e non viene dalle regole ina­de­guate, ma dalle prio­rità non assunte e dalle scelte non fatte. È per­dere la spe­ranza la causa prima della sfi­du­cia in chi ci rap­pre­senta e ci governa. È nel dram­ma­tico aumento delle dise­gua­glianze e dei biso­gni ina­scol­tati il rischio per l’unità e la coe­sione sociale. Se le rispo­ste giu­ste arri­vas­sero, da esse la poli­tica, le isti­tu­zioni, e la stessa Costi­tu­zione trar­reb­bero nuova vita­lità. Man­cando ancora le rispo­ste, nes­suna riforma sarebbe a tal fine utile.

L’unica medi­cina dav­vero obbli­gata e urgente è una buona legge elet­to­rale che avvii — e il pro­cesso non sarà breve né indo­lore — il risa­na­mento della poli­tica. Una legge che sia scritta tenendo conto che la rap­pre­sen­ta­ti­vità, e non un arti­fi­ciale deci­sio­ni­smo for­zo­sa­mente ridut­tivo della diver­sità e del dis­senso, è oggi cru­ciale per con­so­li­dare le isti­tu­zioni vacillanti.

Dare voce, non met­tere bava­gli: così si rias­sor­bono le pul­sioni distrut­tive che Napo­li­tano giu­sta­mente richiama. Lo impone tra l’altro oggi la Corte costi­tu­zio­nale, ma già prima il buon senso.