Mai vista una foto ingiallirsi in così poco tempo. 16 settembre-9 novembre 2011: nemmeno due mesi ci separano dal comizio a tre di Vasto, con Bersani, Di Pietro e Vendola sul palco a disegnare i contorni di un’alleanza (elettorale?) già fatta, sarebbe bastata una bella convention programmatica (di tre giorni, disse il leader Pd), e poi le primarie per scegliere il candidato-premier. Nessuno aveva fissato le elezioni, ma era “come se”. Ora tutto è cambiato.

Il Pd ha rotto con Di Pietro.


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Se non cambia linea, sarà rottura definitiva. Essendo Di Pietro uno che spesso fa le cose per vedere l’effetto che fa, può essere che cambierà idea una volta resosi conto che non conviene fare l’estremista. Per ora, però, Bersani, alla sua maniera, è netto: «Non è che uno può andar per funghi durante il governo tecnico e poi tornare per la campagna elettorale». Diversamente da Vendola, che per formazione ha una maggiore consuetudine alla politica e si attesta su una linea cauta (sostanzialmente, sì al governo tecnico ma per poco tempo), Di Pietro si mette in rotta di collisione col Nazareno. La probabilissima scena del Pd che vota la fiducia e Idv che vota contro costituirà una ferita destinata a non rimarginarsi. E ci si attende un periodo – forse fino alle elezioni del 2012 – nel quale i due partiti se le daranno di santa ragione.
Perché Bersani ha via via consolidato la linea del governo d’emergenza. Alla riunione del coordinamento di mercoledì sera il segretario, chiudendo la discussione, è stato molto chiaro: «La strada è questa». Il Pd c’è e ci sarà: Monti (e il Colle) possono star sicuri.

È questa la posizione del Pd, unanime. Largamente motivata, nella relazione, da uno degli uomini- chiave di questa fase, Enrico Letta, l’esponente dem che più di tutti – con il MoDem – si è speso per il governo d’emergenza, anche quando pareva impossibile, anche quando questo gli attirava gli strali dei “giovani turchi”. E infatti anche l’altra sera Stefano Fassina ha argomentato timori e distinguo – ai limiti del no – a dire la verità un po’ isolato (solo il poco noto Martinelli, vicino a Ignazio Marino, ha espresso perplessità). E però è probabile che interpreti uno stato d’animo più diffuso mano mano che si scende dal vertice alla base, dove si sentono militanti di estrazione diessina che paventano il rischio «di fare da ruota di scorta ad un’operazione tecnocratica» o, peggio, di confondersi con i berlusconiani nel sostegno ad un governo impopolare.
Intanto si vede a occhio nudo il malessere di Susanna Camusso o del direttore dell’Unità, che in tv è stato malevolmente beccato da Bruno Vespa, «l’Unità è contro il Pd». O addirittura la miticaVelina rossa dare l’addio al Partito. Sono stati d’animo che non trovano agganci nel gruppo dirigente, per una volta unito nell’affrontare la sfida.

Qualcuno è costretto a riavvolgere in fretta e furia la bandiera delle elezioni anticipate, non certo contento per l’allontanarsi delle elezioni.
Soprattutto, c’è chi teme che il Pd risulti ininfluente nella trattativa sui nomi dei ministri. «Non facciamola adesso questa discussione», ha detto D’Alema (e anche Veltroni), che ha manifestato la preferenza per la partecipazione diretta di esponenti dem al governo.
Linea non condivisa dai veltroniani e da quanti ritengono che su questo devono decidere Monti e Napolitano. In controluce, l’allarme è che il Nazareno conterà poco anche sulla politica concreta del nuovo governo: ai meno giovani sembra di tornare al 1976.

Sul punto dolente dei ministri, il “caminettone” potrebbe tornare a riunirsi probabilmente lunedì, il giorno dell’incarico a Mario Monti. Per molti, una riunione inutile.
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