L’idea di scrivere sul mondo del lavoro mi era balenata qualche anno fa, quando mi trovavo alla ricerca di un nuovo impiego dopo l’ennesimo fallimento lavorativo presso una “grande” azienda nella mia zona. Qui in Friuli queste “grandi” aziende abbondano: grandi magazzini, grandi speranze, grandi progetti, grande anche il concetto di grandezza perché tutto dev’essere grande. Ma, a dirla sinceramente, tutto ciò si traduce solo in risultati scadenti dal punto di vista prestazionale e organizzativo. La mia terra d’adozione, dopo 23 anni si rivela essere così: il numero di lavoratori è l’unica vera differenza tra una grande azienda e una normale. I volumi, invece, vengono da sé. E cosa ci si può aspettare? 200 operai per ogni azienda del settore mobile sembrano una sciocchezza se paragonati alle possibili migliorie che un’organizzazione più capillare potrebbe portare mettendo al centro non solo il prodotto finito, ma l’intera filiera, a partire dalle persone che lo creano. Tranne rare eccezioni, è così ovunque.

E così eccomi qui, a parlare di lavoro. O meglio, dei problemi dei lavoratori e dei loro racconti, delle loro vicissitudini e di come si sono liberati di un peso che portavano non solo nello stomaco, ma in ogni parte del corpo, specialmente in testa. Ho deciso di raccontare queste storie, di queste persone che non ce l’hanno più fatta a lavorare in condizioni così precarie da chiedersi se sia meglio sopravvivere così o mollare tutto e godersi la propria famiglia. Perché, sinceramente, c’è davvero poca differenza tra lavorare 16 ore al giorno per una paga da fame, vedendo i propri cari solo la sera (possibilmente con figli ancora piccoli già a nanna) oppure restarsene a casa e godersi la famiglia, facendo qualche lavoretto ogni tanto per arrivare a fine mese. Insomma, la scelta è tra sacrificare la propria salute per lavorare o smettere di lavorare e non avere abbastanza soldi per vivere. 

La cultura pop li chiama “quitters”, i disadattati al sistema lavorativo contemporaneo, coloro che hanno avuto il coraggio di mollare un lavoro spesso a tempo indeterminato ma mal pagato, e scappare ovunque ci sia l’opportunità di una vita migliore per sé e per la propria famiglia.

Leggendo le loro storie, vi accorgerete che non è una decisione facile da prendere. Non lo è mai. Ma in certi casi è davvero – davvero! – l’unica possibilità.

Anche loro sono degli eroi, solo che non lo sapevamo.

Quitters

Perché lasciar perdere il lavoro in piena recessione, in un’epoca in cui si dice che avere un lavoro sia un privilegio? Perché, nonostante tutti i problemi che ci circondano, raccontare le storie di coloro che scelgono di abbandonarlo? E ancora, perché parlare di chi se ne va anziché discutere di chi sciopera, organizza proteste e lotta?

Volevo arrivarci nelle conclusioni, ma partiamo da qui, dai quitters.

Quell’epoca è finita

È vero, il nuovo rifiuto del lavoro è un fenomeno ambivalente e contraddittorio. Non rappresenta una soluzione alla deflagrazione delle nostre condizioni di vita e lavorative, ma piuttosto un sintomo. E non è un sintomo qualunque: è il sintomo di una frattura epocale. È l’indicatore della fine di un’era in cui regnava la speranza che il lavoro potesse realizzare i nostri sogni di emancipazione, mobilità sociale e riconoscimento. Si credeva che il lavoro facesse parte di un sistema virtuoso in grado di sconfiggere la fame e la povertà nel mondo. Quell’epoca è finita. Il sistema in cui viviamo è rotto, e in questo contesto chi decide di abbandonare il lavoro spesso non lo fa perché può permetterselo, ma perché è una questione di sopravvivenza. Lo fa perché non ce la fa più, è esaurito, perché deve prendersi cura dei propri cari o perché sa benissimo che il vero problema, al giorno d’oggi, non è chi può permettersi di non lavorare, ma chi lavora senza sosta e, nonostante tutto, non riesce a mettere da parte abbastanza denaro per pagare sia l’affitto che la cena.

Mi ricordo di aver letto la storia di un operaio alla Fiat Mirafiori di Torino che dichiarava di voler abolire il lavoro perché preferiva stare a casa a far sesso. Chi non lo vorrebbe? Il rifiuto del lavoro negli anni Settanta rappresentava anche questo: l’espressione di un’immaginario di potenza che mirava a trasformare la società in modo radicale. Chi lascia il lavoro oggi, spesso, non si sente in grado di cambiare il mondo, semplicemente vuole sopravvivere. Non vuole abolire il lavoro, ne è disgustato. Solo il pensiero del lavoro causa sensazioni di nausea, mal di testa, attacchi d’ansia e panico.

Great Resignation

Negli ultimi tempi, l’abbandono delle posizioni di prestigio è diventato un fenomeno sempre più diffuso e discusso. È stato il caso di Jacinda Ardern, la premier della Nuova Zelanda, che nel gennaio del 2023 ha annunciato la sua dimissioni confessando di aver finalmente dormito bene per la prima volta in molto tempo dopo aver preso quella decisione. Poco dopo è stata la volta di Nicola Sturgeon, la leader scozzese, che a metà febbraio dello stesso anno ha dichiarato che era «giunto il momento» di abbandonare la sua carica. «Sono un essere umano oltre che una figura politica», ha affermato, aggiungendo che il ruolo di primo ministro può essere svolto appieno solo mettendo in gioco tutto se stessi. «Ma questo può essere fatto, da chiunque, solo per un periodo di tempo limitato». E non possiamo dimenticare Susan Wojcicki, CEO di YouTube, che si unisce a una lunga lista di dimissioni tra le donne di spicco della Silicon Valley: Sheryl Sandberg, l’ex COO di Meta; Meg Whitman, l’amministratrice delegata di Hewlett-Packard; Marissa Mayer, l’ex CEO di Yahoo, solo per citarne alcune. 

E poi ci sono state le dolorose decisioni prese da atleti e atlete come Simone Biles, Naomi Osaka e Michael Phelps, che hanno deciso di abbandonare importanti competizioni sportive per prendersi cura di se stessi. Simone Biles ha rinunciato alle Olimpiadi di Tokyo, dove era considerata la favorita, a causa della pressione schiacciante a cui era sottoposta. Biles, cresciuta nella povertà e vittima di abusi sessuali da parte dell’ex medico della squadra nazionale Larry Nassar, ha rivoluzionato la sua disciplina e si è affermata come una straordinaria ginnasta afroamericana, nonostante gli occhi razzisti e giudicanti dell’America. Il suo caso e quello di Naomi Osaka, la stella del tennis che si è ritirata da Wimbledon e ha deciso di non parlare con la stampa per tutelare la propria salute mentale, hanno messo in luce il lato oscuro del mondo della competizione sportiva e l’enorme pressione che essa esercita sugli atleti, quasi soffocandoli. Il peso dell’oro, la docu-serie sul leggendario nuotatore pluripremiato Michael Phelps, descrive in modo eloquente come il sistema sportivo possa distruggere i suoi stessi campioni, indipendentemente dal fatto che vincono o perdono. 

Un mondo di precariato

Il caso italiano si distingue a livello internazionale per una situazione anomala: molti settori faticano a trovare personale, nonostante ci siano circa cinque milioni di persone disoccupate e scoraggiate. Per comprendere questa contraddizione, bisogna immergersi nella vita quotidiana di coloro che lavorano in settori in cui la disillusione è più evidente. Negli ultimi mesi, mi è venuto in mente più volte che per capire le cause delle “Great Resignation” basterebbe ascoltare chi le compie. Scopriremmo che l’aumento delle dimissioni volontarie non ha nulla a che fare con il reddito di cittadinanza, ma è piuttosto legato a una cultura lavorativa tossica. Si tratta di salari bassi, turni massacranti, mobbing, bullismo, scarsa sicurezza sul lavoro, vessazioni e una mentalità ostile ai sindacati. In molti casi, gli stessi elementi che per tanto tempo sono stati considerati vantaggiosi per abbassare i costi del lavoro e limitare le richieste dei lavoratori precari, si sono rivelati dannosi per tutti, creando un sistema in cui la fuga di personale segna una situazione insostenibile sia per i dipendenti che per le aziende.

Questa non è la prima volta nella storia in cui il tasso di dimissioni volontarie aumenta in modo costante. Cento anni fa, la crescita dell’assenteismo e delle fughe dai posti di lavoro portò a importanti trasformazioni: innanzitutto, si introdusse un sistema di compensi diretti, indiretti e differiti per gratificare economicamente il personale per i propri sacrifici. In secondo luogo, si iniziò a regolamentare gradualmente i tempi e gli orari di lavoro, passando dalle lunghe giornate lavorative nelle filande alla fine del XIX secolo – in cui si lavorava in media sedici ore al giorno – all’introduzione, all’inizio del XX secolo, della giornata lavorativa di otto ore, cinque giorni alla settimana. Le norme sul lavoro non sono immutabili: si adattano alle esigenze delle diverse epoche e sono modellate dalle necessità di chi lavora in questi contesti.

Negli ultimi mesi sono stati condotti importanti esperimenti volti a modificare il mondo del lavoro. Richard Godwin, ad esempio, ha spiegato al Guardian perché lavorare meno potrebbe essere la soluzione a tutti i problemi e persino un antidoto alle dimissioni del personale. I risultati del pilot sperimentale, che ha permesso a settanta aziende inglesi di adottare la settimana lavorativa di quattro giorni senza riduzione del salario, sono stati positivi sotto ogni aspetto. Una settimana lavorativa di quattro giorni, come spiega la campagna “4 Day Week”, aumenta la produttività, favorisce il benessere dei dipendenti, consente un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata, migliora la salute fisica e mentale, contribuisce a una divisione più equa delle responsabilità domestiche e di cura, riduce gli spostamenti in auto e le emissioni di carbonio. “Torniamo al lavoro rinvigoriti”, ha dichiarato un CEO al Guardian, mentre l’associazione ambientalista Platform London ha evidenziato che una settimana lavorativa di quattro giorni potrebbe ridurre le emissioni del Regno Unito di oltre il 20% entro il 2025. In un’epoca segnata da crisi, esperimenti come questo dovrebbero essere al centro dell’agenda politica.

È arrivato il momento di ascoltarli

Da tempo, le promesse di pace e prosperità che dominavano il secondo dopoguerra sono state infrante dalla povertà, dalla guerra e dalla minaccia di una crisi climatica che alcuni scienziati ritengono essere stata pericolosamente sottovalutata. La fine del mese e la fine del mondo rappresentano la stessa battaglia, sostengono i movimenti ambientalisti. È necessario non solo chiedere salari più alti, ma anche ripensare gli obiettivi di un sistema produttivo che non può contribuire all’esaurimento del pianeta e della vita stessa, ma deve rigenerarli entrambi.

In questo contesto, la determinazione di coloro che rifiutano un lavoro che offre solamente cinquecento euro al mese non rappresenta un privilegio: ci dicono che non possiamo permetterci di lasciarci spingere al suicidio da un sistema tossico. Chi rifiuta un salario da fame non sta compiendo un atto pericoloso, ma si rifiuta di abbassare l’asticella.

quitters sono riusciti a far luce sul mondo del lavoro e a sollevare una discussione che è stata rimandata per troppo tempo. È arrivato il momento di ascoltarli.


Per approfondire:

Riprendiamoci la nostra vita

La cultura pop li chiama “quitters”, i disadattati al sistema lavorativo attuale, coloro che hanno avuto il coraggio di mollare un lavoro spesso a tempo indeterminato ma mal pagato, e scappare ovunque ci sia l’opportunità di una vita migliore per sé e per la propria famiglia.

Leggendo le loro storie, vi accorgerete che non è una decisione facile da prendere. Non lo è mai. Ma in certi casi è davvero – davvero! – l’unica possibilità.