In un’imprevedibile coincidenza, la Corte di Cassazione italiana e il tribunale penale di Lisbona hanno emesso due sentenze che potrebbero avere un impatto significativo sul giornalismo investigativo. Le due corti hanno stabilito che il diritto a informare non giustifica la commissione di reati per ottenere informazioni. Queste sentenze, in linea di principio condivisibili, potrebbero tuttavia essere interpretate in modo restrittivo, estendendosi dai leaks del whistleblower a chi organizza piattaforme per ricevere segnalazioni anonime.

Tribunal Judicial da Comarca de Lisboa

L’11 settembre 2023, il Tribunale di Lisbona ha condannato a 4 anni di carcere Rui Pinto, l’hacker noto per il caso “Football leaks”. Nella sentenza di primo grado, Pinto ha violato i sistemi di un fondo di investimenti, dell’ufficio del procuratore generale e di uno studio legale a Lisbona. Ha anche intercettato e-mail e tentato un’estorsione.

La sentenza ha rivelato che dai vasti archivi di dati sottratti da Pinto – circa 70 milioni di file in quasi due terabyte di dati – sono emersi comportamenti potenzialmente illeciti sotto il profilo fiscale, nonché violazioni delle norme finanziarie sul fair play della UEFA. Tuttavia, tra queste informazioni vi erano anche dati neutri come i compensi degli atleti e i dettagli dei contratti sportivi, che non costituivano necessariamente dei reati.

I dati furono trasmessi in due hard disk al Der Spiegel e ad altri importanti giornali europei facenti parte della European Investigative Collaborations, che a sua volta ha analizzato i file per individuare informazioni di rilevanza giornalistica.

Pinto aveva difeso le sue azioni sostenendo di agire nell’interesse pubblico come “whistleblower”, ritenendo quindi che il suo comportamento fosse giustificabile legalmente. Tuttavia, il tribunale ha respinto questa tesi basandosi sulle prove che hanno dimostrato che gli attacchi erano stati condotti al fine di ottenere informazioni prima di conoscerne il contenuto.

Corte di Cassazione

Meno di due settimane prima della decisione nel caso Pinto, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha emesso la sentenza 36407/23, resa pubblica il 31 agosto 2023. Questa sentenza ha riaffermato il principio di diritto, già stabilito in precedenti pronunce, che specifica che la protezione del diritto di cronaca si applica esclusivamente alla pubblicazione di notizie e non si estende ai metodi utilizzati per ottenere tali informazioni. Anche se in questo caso non si parla di whistleblower e il contesto è assolutamente diverso, il principio di fondo sul diritto all’informazione resta tale.

In altre parole, se un giornalista pubblica una notizia vera ottenuta in modo legale e riportata con precisione, non commette alcun reato. Ma se il giornalista, da solo o in collaborazione con altri, acquisisce la notizia vera violando la legge, non può invocare il diritto di cronaca a sua difesa, poiché tale tutela si applica solamente alla decisione di pubblicare o meno l’articolo.

Il nodo giuridico del whistleblower

L’analisi sistematica dei principi delineati nelle sentenze, coordinata con le normative sulla responsabilità penale, rivela una situazione che potrebbe arduamente ostacolare e rappresentare un potenziale rischio per il giornalismo investigativo praticato dai media professionali, quando si avvalgono di fonti anonime e interagiscono direttamente con piattaforme come Wikileaks.

Sebbene il ragionamento giuridico si sviluppi in modo più articolato, è possibile riassumerlo in due punti chiave: la restrizione nell’utilizzo di informazioni raccolte e diffuse senza coinvolgimento diretto del giornalista e il limite nell’uso di piattaforme che consentono la ricezione di informazioni e documenti, garantendo il massimo anonimato al whistleblower.

Raccogliere e ripubblicare i leaks è lecito?

Nel primo aspetto, se terzi diffondono informazioni critiche in modo indipendente, come nel caso di Chelsea Manning, e i media le utilizzano senza dipendere dalla fonte originale, è difficile ipotizzare una responsabilità da parte dei professionisti dell’informazione. In questo contesto, è probabile che l’autore delle divulgazioni venga sottoposto a procedimenti giudiziari, mentre è altamente improbabile che giornalisti e redattori che hanno tratto vantaggio da tali informazioni siano coinvolti nello stesso processo.

Sebbene le responsabilità tra whistleblower e giornalista siano generalmente ben definite, la situazione diventa più complessa quando si tratta di una piattaforma gestita direttamente da un’organizzazione giornalistica per la divulgazione di documenti riservati.

Come accennato precedentemente, il tribunale di Lisbona ha negato a Pinto lo status di whistleblower in virtù del fatto che egli aveva acquisito illegalmente le informazioni senza avere una chiara conoscenza preliminare del loro contenuto. Inoltre, in linea di principio, chiunque agevoli consapevolmente la commissione di un reato o accetti il rischio che il proprio comportamento possa agevolare l’illecito si espone a una potenziale responsabilità penale. Da un punto di vista giuridico, ci troviamo in una zona grigia tra l’istigazione a delinquere e la partecipazione a un reato con dolo eventuale.

Di conseguenza, gestire una piattaforma che consente la pubblicazione anonima di informazioni, indipendentemente dal fatto che queste costituiscano prove di crimini o atrocità, solamente perché sono segrete, comporta il rischio di accettare la possibilità di ricevere informazioni che non si avrebbero il diritto di possedere. Allo stesso tempo, questa pratica potrebbe anche incentivare la commissione di reati da parte di coloro che cercano di procurarsi tali informazioni sfruttando la garanzia dell’anonimato, implicando così una potenziale complicità con l’autore dell’illecito. Un pubblico ministero determinato o una parte lesa altamente motivata e finanziariamente in grado di sostenere i costi, potrebbero avanzare queste accuse in un processo legale.

Come difendersi

Una testata giornalistica potrebbe adottare una difesa preventiva selezionando attentamente l’importanza delle notizie e limitando l’uso di informazioni riservate solo a eventi di una gravità tale da rendere evidente l’inalienabile diritto all’informazione. Però comporterebbe che tutte le informazioni ottenute in modo illecito e relative a fatti di minore rilevanza dovrebbero essere immediatamente eliminate.

Questa strategia difensiva, seppur possibile, sarebbe di difficile attuazione e rappresenterebbe un significativo ostacolo per l’operato giornalistico. In teoria, sarebbe compito di ogni direttore valutare attentamente ogni situazione e decidere se assumersi il rischio di possibili azioni penali al fine di difendere il principio fondamentale della libertà di informazione davanti alla Corte Costituzionale.

Nonostante ciò, questa strada non risulterebbe auspicabile, considerando che i tempi e le incertezze dei procedimenti giuridici potrebbero ritardare l’attuazione di una soluzione stabile – nota come “orientamento costante” della giurisprudenza – per decenni. Inoltre, va preso in considerazione che i giudici non sono obbligati a seguire tali “orientamenti” e potrebbero cambiarli senza preavviso. Quindi, sorge la questione se sia necessaria una legge specifica per regolare il giornalismo investigativo.

Quali garanzie per il giornalismo investigativo

È evidente che se tali orientamenti giuridici si consolidassero, non solo in Italia ma anche nell’intera Unione Europea, una singola denuncia formulata in questo modo potrebbe gravemente minacciare l’esistenza stessa di un’organizzazione giornalistica. Questo rischio è particolarmente significativo, soprattutto considerando che per i reati più gravi si prevedono misure restrittive come la custodia cautelare e la possibilità di utilizzare le intercettazioni.

La digitalizzazione della società ha indiscutibilmente aumentato notevolmente la facilità con cui è possibile acquisire e diffondere informazioni recepite e recapitate da whistleblower ma destinate a rimanere confidenziali. Allo stesso modo, la diffusione indiscriminata di grandi quantità di dati riservati spesso avviene senza una valutazione adeguata del loro contenuto. Ciò comporta il rischio di rivelare non solo attività illegali, ma anche informazioni che semplicemente dovevano rimanere segrete. Pertanto, potrebbe essere necessario stabilire un quadro normativo che limiti l’uso di tali divulgazioni, indipendentemente dalla loro portata. Ad esempio, si potrebbe considerare l’idea di non punire la cooperazione attiva dei giornalisti nella raccolta di informazioni riservate che denunciano attività illegali.

Indipendentemente dalla soluzione adottata, è innegabile che una legge di questo tipo sarebbe estremamente complessa da elaborare. Esiste un reale rischio che ciò che dovrebbe essere uno strumento di tutela possa invece trasformarsi in uno strumento di censura. Pertanto, se si dovesse seriamente considerare questa possibilità, sarebbe essenziale gestirla con grande cautela e richiederebbe un sostegno politico ampio al fine di raggiungere un equilibrio sostenibile tra la protezione dei segreti e il diritto a essere informati sugli affari del potere.