Il governo ha deciso di puntare tutto sulla riforma costituzionale, forse per distrarre l’attenzione dalla manovra. Ma la riforma non è una cosa da poco, o un “golpetto” come ha scritto Repubblica, è un vero pasticcio. È la riforma per avere il premier con pieni poteri.

La Carta costituzionale rischia di essere inquinata da norme contraddittorie e commi ambigui. C’è solo una cosa chiara: si vuole l’elezione diretta del capo del governo, il resto non conta. Questa è la sintesi ideologica e il fallimento tecnico di trent’anni (almeno) di tentazioni autoritarie che hanno attraversato i governi italiani più diversi. L’unico obiettivo è innalzare un capo o una capa, senza curarsi del sistema istituzionale che lo o la affianca.

Il mandato popolare

La maggioranza e i suoi sostenitori – anche tra gli accademici – cercano di farci credere che «l’equilibrio non cambia, i poteri del presidente della Repubblica non cambiano, il ruolo del parlamento non è sminuito», ma non è vero né nella forma né nella sostanza.

La vaghezza del contorno aumenta i pericoli. Se il confine del mandato popolare non è chiaro, si può essere sicuri che tende a dilatarsi. Succede già ora – in questa Repubblica parlamentare che si vuole buttare via come se fosse un’istituzione inutile – dove il presidente del Consiglio è un primo tra pari e si comporta invece come un premier leader, o leaderessa.

Le promesse della premier

Oltretutto la riforma non mantiene neanche le promesse fatte. Difatti non rende il premier più forte: inserisce regole assurde – il secondo premier, quello che non ha vinto le elezioni, avrebbe il potere di sciogliere le camere, visto che la riforma esclude che ci possano essere più di due premier in una legislatura, quindi sarebbe lui il più forte; e si contraddice con i suoi scopi – se vuoi fare il sindaco d’Italia, fallo sul serio, e inserisci il ballottaggio per dare al Parlamento un ruolo e al Capo dello Stato la funzione di arbitro e garante.

Il referendum

La riforma è un bel casino ma Meloni non ci sente. Farà qualche ritocco ma la vuole portare a casa. E portarla a casa significa rischiare il referendum: se la riforma non passa con i due terzi del Parlamento si deve fare. Due esempi.

  • Giugno 2006: gli italiani votano sulla riforma costituzionale del governo Berlusconi, vince il no con il 61 per cento;
  • Dicembre 2016: gli italiani votano sulla riforma costituzionale di Renzi, vince il no con il 59 per cento.

Pieni poteri alla premier

Non capisco perché si voglia ancora più acqua quando piove a dirotto. Tra decreti legge, fiducie, stati di emergenza e video alla nazione, dovremmo preoccuparci dell’ombrello, non di bagnare ancora di più il terreno. Ma se un Parlamento muto, una maggioranza servile e un governo di famiglia non sono abbastanza per far funzionare “la macchina”, non sarà l’elezione diretta a renderla più efficiente. L’incoronazione popolare servirà solo a tirare la corda della delega. Non solo a chiederla, ma a prenderla: i pieni poteri.

La presidente del Consiglio, che viene da una storia estranea alla Costituzione, cerca così, goffamente, di rottamare il patto fondativo della Repubblica. Non sto esagerando. Nei cinque articoli mal fatti della riforma c’è una forma di governo mai vista, nemmeno in altri paesi. È la proposta più pericolosa e più estrema tra quelle, già pessime, fatte in passato (da Berlusconi e poi da Renzi) e bocciate dal referendum. Ma è anche, come al solito, un modo per distrarci dalle miserie della politica di oggi: una legge di bilancio misera, i primi malcontenti tra gli elettori della destra, una serie infinita di figuracce che coinvolgono palazzo Chigi e gli altri ministeri. Come sempre e come è successo anche all’altra parte politica, la Costituzione da cambiare è la scusa preferita di chi non sa o non vuole governare seguendola.

La Terza Repubblica

La premier si erge su un panorama spaventoso, come l’erede designata della terza Repubblica a guida monocratica. La sua incompatibilità con gli equilibri costituzionali si manifesta in ogni sua mossa e dichiarazione. Non solo vuole fissare nella Carta il sistema elettorale e il premio di maggioranza al 55% («minimo»), imporre il mandato imperativo ai parlamentari, eliminare il limite ai mandati, ma ha anche spiegato che la sua riforma inciderà in Costituzione il programma elettorale. E ha avvertito solenne che non rispettarlo sarà “incostituzionale.

Di fronte a questo si può piangere, ma anche un po’ ridere se si va a vedere il programma con cui lei stessa si è candidata alle elezioni. Prometteva l’elezione diretta del presidente della Repubblica, non questo premierato all’italiana. Quindi, secondo la sua logica, anche la sua riforma è incostituzionale. E lo è davvero, anche se non ha capito il motivo.

Vincere e vinceremo!

Meloni si dice sicura di vincere, dice che il destino del governo non dipende da un referendum ma si dimentica una cosa: quando un premier decide di giocarsi tutto su un referendum, l’oggetto del referendum passa in secondo piano e conta solo il soggetto che lo propone.